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16/01/2022 categoria: News
Intervista al Tgcom


Come scegliere il ristorante giapponese più sicuro? Dopo tante querelle, a dipanare ogni dubbio è stato intervistato Enrico Schettino, fondatore del gruppo Giappo e della Giappo Academy, l’unica scuola italiana per professionisti della cucina nipponica creata in sinergia con Gambero Rosso Academy. 

Dopo l’intervento tv a “Mi Manda Rai Tre”, uno dei più seguiti format della televisione pubblica in tutela dei consumatori, nel corso del quale l’imprenditore – chef ha mostrato innanzitutto le differenze di qualità di pesce per poi passare in rassegna diverse tipologie di alghe e riso per sushi nonché la procedura per abbattere il pesce, anche a casa. 

Come si riconosce un sushi di qualità?

“L’olfatto è il senso più importante, poi il colore, come terzo punto la consistenza delle carni. E poi un ottimo sushi non equivale solo alla qualità del pesce, ma anche a quella delle alghe, dell’aceto. E la qualità si paga, ovviamente. I giorni che passano dalla pesca infine fanno la differenza tra pesce che può essere usato solo crudo o solo cotto”.

Ma quali sono i trucchi per concedersi il sushi in piena tranquillità? 

Partiamo da salmone e tonno, i pesci più richiesti nei ristoranti giapponesi. 

Nel primo caso, consideriamo che stiamo parlando di un pesce pescato cinque giorni visto che ce ne vogliono quattro per il traporto dalla Norvegia. Se è subito consegnato al ristorante dopo l’arrivo in Italia, come nel caso dei Giappo, stiamo parlando quindi di un pesce che può essere stato pescato da cinque a dieci giorni prima. Entrambe le tipologie sono vendibili sul mercato, ma chiaramente hanno qualità e prezzi differenti. 

“Per riconoscere la qualità – ha spiegato Schettino davanti alle telecamere Rai – vanno osservate le branchie: se sono marroni e poco vivide il pesce è vecchio. Va poi tastato il pesce: se resta l’impronta vuol dire che le carni sono poco elastiche e quindi vecchie. Il pesce deve profumare di mare e non puzzare di pesce”.

Passando poi al tonno, partiamo dal dire che esistono varie qualità: dal tonno rosso al pinna gialla, fino ad alalunga e palamita. Visto il divieto di pesca e le quote tonno assegnate in maniera sempre minore alle tonnare italiane ed alla pesca sportiva (secondo un calcolo medio un pescatore sportivo con licenza potrebbe pescare 3 chili di tonno l’anno), ormai quasi tutto il tonno è di importazione: Spagna, Sri Lanka, Maldive. 

“Ovviamente questa è una stortura nostrana – commenta ancora Schettino – e trovo assurdo che i nostri tonni, i migliori al mondo, non possiamo gustarli”. 

Anche il riso poi non proviene dal Giappone ma principalmente dalla California, ultimamente molte risaie stanno portando avanti coltivazioni di riso per sushi. “Ed anche qui sarebbe il caso – continua Schettino – che le aziende italiane si dedicassero a sviluppare questa coltura, garantendo la qualità del Made in Italy anche in questo settore”. 

Infine le alghe: le tre più diffuse nella cucina giapponese sono wakame, kombu e nori. L’alga nori che è quella utilizzata per fare il sushi, ha varie classificazioni ed in base a queste variano la qualità ed il prezzo. 

Tutto questo determina le differenze di qualità di un ristorante giapponese, e del suo food cost da cui deriva il prezzo finale praticato al cliente. 

“Considerando che un salmone costa circa 13 euro al chilo, un tonno discreto almeno 20 e che le alghe, il riso, l’aceto e gli altri ingredienti hanno un costo elevato, è inspiegabile come si possa offrire un prezzo di 15 euro per un pranzo che comprenda sushi e sashimi in quantità. Se non a discapito della qualità e della salute delle persone”, conclude Schettino.

Il consumo del sushi è sicuramente aumentato durante la pandemia, grazie al delivery, ora la situazione è cambiata; “le strade sono vuote, molti hanno il Covid e sono in quarantena, gli uffici sono semi vuote e moltissimi sono in smart working, il pranzo è crollato, la sera va meglio ma accusiamo il colpo. A mio parere andrebbe cambiata la normativa della quarantena”.

L’academy è il fiore all’occhiello; come sono i giovani chef?

“Faccio formazione da tanti anni, alcuni corsi durano 2 settimane e i temi trattati riguardano vari tipi di ristorazione. I giovani vanno dai 16 ai 25 anni, poi si sale dai 25 ai 40 per le conversioni. I primi sono un po’ svogliati, troppo interessati alla visibilità, arrivano con grande entusiasmo poi capiscono che il lavoro dello chef è fatto di fatica, sacrificio, tanta pazienza e routine. Ci vuole impegno, come in tutte le cose fatte bene!”

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